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Mario Schifano

Homs, Libia, 1934 - Roma, 1998.
Nato ad Homs, in Libia, nel 1934 da un "onesto impiegato al ministero della pubblica istruzione", Schifano, tornato a Roma con la famiglia, aveva abbandonato la scuola fin da piccolo. "Ho fatto solo la terza elementare", ha sempre dichiarato, con un misto di orgoglio e di malinconia ("Era una forma di masochismo volontario", ha spiegato una volta. "Ma era una necessità: dovevo strappare il cordone ombelicale con la famiglia"). Poi, verso i vent'anni, dopo il servizio militare, cominciò a lavorare con il padre, nel museo etrusco di Valle Giulia. Fu lì che ebbe "la prima sollecitudine verso le cose esterne che mi piacevano: i paletti. Quelli bianchi e neri che i geometri mettono per terra per poi fare i rilevamenti topografici. Verniciavano i paletti, bianco e nero, bianco e nero. Questo mi aveva stimolato... Come all'esterno: semafori, cartelloni che vedevo quando con Tano Festa camminavamo parlando, nel paesaggio urbano".
Iprimi quadri di Schifano furono i celebri monocromi gialli (che molti critici interpretarono come esempi di neodadaismo sull'onda del new dada americano). Ma presto i quadri si cominciarono a riempire di segni tratti dal paesaggio urbano: cartelloni, scritte pubblicitarie, immagini-simbolo, come quella della Coca.Cola , che si allacciavano alla cultura pop. Il pittore, però, ha sempre rifiutato qualsiasi apparentamento troppo stretto con la pop art: "Ho fatto i miei lavori contemporaneamente, e non successivamente, alla pop art. La pop art la facevano loro e la imponevano, quasi come un fatto politico". Il successo arrivò presto e con il successo anche il denaro. "Nel '62", raccontò, "andai a New York inviato ad una mostra organizzata da Sidney Janes. La mostra si chiamava The new realist show. C'erano tutti: Rauschenberg, Oldenburg, Jasper Johns. Entrai così in un circolo che era anche un circolo d'affari. La società mi rincorreva, e la trappola fu il denaro".

Schifano ha sempre avuto un rapporto ambivalente con il denaro: da una parte l'ha cercato, l'ha usato e ne ha goduto all'eccesso. Dall'altra ha sempre rifuggito il rapporto di sudditanza che il denaro può creare all'artista, sperperandolo a valanghe; e anche finanziando, nei primi anni Settanta, gruppi della sinistra extraparlamentare ("Do denaro a questi ragazzi", diceva. "D'altra parte perché no? Lo guadagno con brutale facilità"). E' questo il doppio volto di Schifano, quello che ne fa in tutto e per tutto un artista maledetto, difficile, controverso, amato e conosciuto da tutti, e nello stesso tempo spesso malvisto e denigrato. Di questo doppio volto fanno parte i numerosi arresti per droga ("Ormai era diventato un gioco", racconta: "Ogni volta che qualche ufficiale della Finanza o della polizia voleva fare carriera, veniva da me e mi arrestava"), ma anche le polemiche fatte in passato sui suoi quadri "dati via per niente" (mentre lui si schermiva: "Non posso darli al prezzo a cui li vendono i mercanti, non me la sento"). Sono le contraddizioni, gli sbalzi caratteriali e le mille facce dell'artista che Goffredo Parise, nel '65, definì "Un piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto".

Negli ultimi anni il suo studio era invaso dai televisori perennemente accesi, dagli impianti Hi-Fi, dalle macchine fotografiche sempre pronte a fissare un'immagine, a trasformarla, a riprenderla in mille angolature diverse per farne un quadro. I colori sono stesi, come un tempo, con velocità, senza riflessioni o ripensamenti. Ma i procedimenti diventano, se possibile, ancora più complessi: le immagini non vengono più passate direttamente sulla tela. Prima vengono manipolate al computer. E il computer serve anche per un'altra operazione: collegare lo studio dell'artista con tutto il mondo attraverso internet, la rete delle reti. L'artista ha inseguito l'utopia di un luogo senza frontiere, aperto a tutte le immagini del mondo, sulle quali ognuno può intervenire liberamente per poi ributtarle, libere, di nuovo nel mondo, si sta forse per avverare.


Opere di Mario Schifano (5)


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