Giampietro Cipollini è pittore giovane e perciò va identificato nell'ambito di quella generazione che ha travolto, con l'irruenza tipica dei giovani d'oggi, le regole del gioco. Voglio dire che per un pittore versiliese gli aspetti formali hanno avuto sempre il carattere di inviolabilità; magari dopo le tribolazioni figurali di Viani, l'azzardo per la scompaginazione dei segni si e fatto sentire talvolta, ma senza eccessiva convinzione.
L'informale è passato di striscio in questa terra benedetta dal sole e dall'amore per l'arte e solo pochi hanno sentito il desiderio di fermarne i suggerimenti perché, se suggerimenti dovevano essere presi in considerazione, c'erano - e sempre disponibili - quelli dei grandi pittori, dei patriarchi dell'arte toscana.
Cipollini esce dalla schiera e va ad afferrare i suoi ideali pittorici a mezzo tra le sollecitazioni della cultura che la propria terra gli offre e le suggestioni subite dal passaggio del "tachisme". E corre verso l'ideale che si è costruito nella solitudine della lunga invernata viareggina con un carico di colori accesi, infuocati, da bruciare le carni. C'e, a far da moderatore, nell'architettonica costruzione dei suoi quadri, una lingua di terra della sua Versilia o una striscia di quel suo mare placido o burrascoso a ricordare che questa pittura ha genitori identificati e reperibili in ogni momento; ma si tratta del sostegno morale che Cipollini ricerca in queste cose per scatenare la sua preziosa follia attorno all'idea di un oggetto, per martoriarla con le tinte furenti. Ma senza corromperne il senso; accentuandone anzi la forza vitale. Perché è qui che si potrebbe, a mio avviso, centrare il discorso sulla pittura di Cipollini: egli scava l'immagine e nel furore della ricerca ne distrugge le apparenze formali per pescarvi l'anima che è in tutte le creature della natura. Lo fa con l'amore che lo tormenta: per la pittura e per la ricerca della verità.
Tommaso Paloscia
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