Venire a contatto con la pittura di Piero Arrighini, artista vaianese scomparso nel gennaio del 2011 a ottantatre anni, significa sottoporre le personali sinapsi a un duro lavoro. L’energia psichica che si libera dalle sue composizioni è, infatti, ricca di stimolazioni sensoriali, in una quantità tale che si ha la sensazione di essere bombardati da una tempesta magnetica. Così viene naturale, come del resto hanno fatto i tanti e illustri critici che si sono cimentati nella trattazione filologica della sua opera, sentirsi in intima comunione con l’artista, invitati a un’esperienza autentica, pregna di costante bellezza.
Arrighini ha utilizzato un personale alfabeto ideografico al quale ha affidato il compito di rappresentare, visivamente, e di registrare interpretandoli, attimi (ora non più fuggenti) del presente, prima di continuare il cammino e avventurarsi nel domani. Ha tradotto, emozioni, visioni fugaci, memorie, in un groviglio, quantunque ben organizzato, e necessario, di figurazioni che non sono e non possono essere altro che una raffigurazione di segnali che ha colto. Col suo lavoro li ha proposti e raccontati anche a noi osservatori. Non senza averli prima depurati da qualsiasi azzardo di ovvietà preconcetta.
Com’è stato felicemente fatto notare, le composizioni - così armoniche - di Arrighini partono dall’interno verso l’esterno, verso il fuori. E certo! Il processo creativo, intuitivo, interpretativo muove dall’inconscio dell’artista, dal rapporto che egli ha con la parte nascosta del suo essere e che si manifesta nel rapporto di verità dell’atto creativo, il quale, a sua volta, obbedisce a un dettato evolutivo.
Il grande Renzo Margonari ha accostato certi lavori di Arrighini, al movimento ‘futurista’ - e come non essere d’accordo - e quindi può valere quanto scriveva Gino Severini già nel 1911 “Noi vogliamo rinchiudere l’universo nell’opera d’arte”. L’universo. Quello che Arrighini affida alla significazione delle sue spirali: continuità ciclica e rotazione creativa; la spirale non ha fine, è tempo e rigenerazione, ed è per l’appunto quello che ‘ascoltiamo’ nelle vibrazioni cosmiche delle composizioni di Arrighini. E’ qui poi che capiamo in tutta la sua evidenza quanto deve essere stato complicato per l’artista costringere la materia nello spazio crudele della tela, comprimerla, e riuscire a far coesistere ordine e disordine, trovare punti di equilibrio nello squilibrio. E’ la ciclicità della vita, che costantemente si rigenera, quella che ci appare. Nelle sue infinite modulazioni.
La tecnica di Arrighini, a sostegno della personalissima e inconfondibile rappresentazione dell’invisibile, è frutto di lunghi anni di sperimentazione e di ricerca, e di tutto il lavoro compiuto in anni precedenti sulla figura umana. Dotato di eccezionale vitalismo, Arrighini sembra aver fatto tesoro di quanto affermava Leonardo da Vinci: “Il moto è causa di ogni vita”; e anche qui: come non essere d’accordo?!
Emilio Vedova sosteneva che tentare di spiegare un quadro è come tentare di spiegare tutta la tua vita, Arrighini non ce lo chiede, ci indica una possibile via salvifica al nostro vivere disordinato, spesso fobico, la indica naturalmente nella pittura, e nell’arte in ogni caso; ove si rintraccia, suggerisce, la persistenza della coscienza vigile e dove si media tra gli opposti del divenire nella consapevolezza che il futuro può solo esistere se prima c’è stato un presente, un oggi.
Nei suoi ‘oli’ c’è questo. La luce molecolare che questi rimbalzano è la luce della creazione, di quel quid spirituale che appartiene (quasi sempre) alla rappresentazione del rapporto intimo, personale che abbiamo con i pensieri e le visioni che attraversano la nostra mente. Arrighini fa questo, li rappresenta, ed è capace - e in questo sta uno dei miracoli della sua arte - di organizzarli, di frenare la velocità dinamica della composizione, strutturandola con raffinate e audaci soluzioni geometriche che esplodono in un trionfo di colore e di luce stesi con un virtuosismo da brivido. Arrighini il colore lo inventa, ci disvela inedite, e sorprendenti, declinazioni dello spettro luminoso e con la luce conferisce profondità e mistero alle opere, definisce i riccioli che le compongono, le lamine, i misteriosi strumenti forse destinati alla cosmonautica, a volte simili, nella forma, agli utensili di qualche vecchia, nobile, officina meccanica. Ed è ancora con la luce che diffonde un possibile monito laddove questa sembra ritirarsi, e il monito serve a ricordarci che la storia non finirà con la nostra presenza e che dobbiamo accettarlo e che l’unica possibilità che ci è concessa è proprio quella di cogliere l’attimo, di impadronirci dei nostri pensieri, cristallizzarli, raccogliendoli come conchiglie per trovare il tutto nel frammento.
I segni delle composizioni arrighiane sono sempre tondeggianti, non ci sono cerchi geometricamente perfetti, non possono esserci perché solo nella dialettica hegeliana, dove tutto ciò che è reale è razionale e viceversa, i cerchi sono perfetti e formano spirali che si chiudono in un grande cerchio finale che simboleggia la coincidenza del finito con l’infinito. Arrighini fortunatamente non ci prova: le sue spirali sono irregolari e la tensione sempre aperta verso un multiuniverso possibile.
Tante e prestigiose le mostre, personali e non, e i premi che hanno costellato la carriera di Piero Arrighini. La sua prima personale risale al 1965, e venne dopo un intenso periodo di sperimentazione visiva; nel 1970 vinse il Premio Nazionale di pittura ‘Città di Viareggio’, ha esposto a Parigi dove fu premiato col Sigillo dell'Unesco, ha vinto il Fiorino d’argento del XIII Premio Firenze, ma certamente uno dei riconoscimenti più graditi è stato quello, purtroppo postumo, dedicatogli dal Comitato organizzatore del Carnevale dei ragazzi di Vaiano in occasione della sfilata dei carri: per anni Arrighini è stato l’anima di quella manifestazione.
Jacopo Chiostri